Classe 1925, ha vissuto la Seconda guerra mondiale e si tiene in forma tra bricolage e cura dell’orto nella sua Lavanderie. «Mi sono sempre dato da fare», sottolinea. Il 16 febbraio ha raggiunto l’eccezionale traguardo
“Arrivarci a quell’età… ma soprattutto: arrivarci così!”. Conosci il signor Celso Porro e non puoi non pensarlo. Classe 1925, 100 anni il prossimo 16 febbraio, ci accoglie nella sua casa di Lavanderie e ci offre un caffè. Con lui c’è la nipote Silvia, ma Celso fa tutto da solo. E se gli si chiede se davvero non abbia bisogni di aiuti, sembra quasi offendersi. Celso vive per conto suo, per camminare usa il bastone. «E ho guidato fino a due anni fa», ci tiene a precisare. Soprattutto si occupa del suo amato orto, che ha creato in un angolo del giardino. «L’ho sempre visto attivo – racconta la nipote – che sia zappare, piantare o costruire ogni genere di strumento o attrezzo».
Rientrando in casa apriamo un cancelletto di ferro che, neanche a dirlo, nonno Celso ha costruito con le sue mani. Come il paralume che pende sopra il tavolo della cucina. «Ho sempre cercato di darmi da fare – si schernisce il pensionato – ho lavorato come elettricista nell’azienda municipale di Milano, poi quando tornavo a casa davo una mano in lavanderia». Già, perché la famiglia Porro si era trasferita in questo quartiere, proveniente da Milano, proprio perché aveva un’attività di lavandai e questa zona di Segrate era dedicata proprio ai lavoratori del settore.
«Inizialmente la ditta del nonno era nella zona della Centrale a Milano, dove avevamo un terreno per stendere i panni – spiega Celso – poi però ci hanno sfrattati per costruire la stazione». Sembra incredibile, eppure quando fu inaugurata Celso era lì. Come c’era quando è scoppiata la Seconda guerra mondiale che ricorda benissimo, come capita con quelle memorie antiche che con il passare degli anni diventano più vivide. «Come dimenticare il suono delle sirene? Avevo costruito un rifugio di emergenza in giardino e scappavamo lì, in quella buca… Portavo in braccio mia nonna che non camminava. Un giorno però non volle venire, restò a letto e la casa sotto le bombe prese fuoco. Riuscimmo a portarla fuori avvolta nelle lenzuola, ma dopo una settimana morì». Gli occhi umidi, i ricordi che si affollano, molti dolorosi, ma sul suo viso non manca mai quel sorriso. «Ho capito che bisogna voler bene e cercare di essere gentili con tutti – dice – basta poco, no?».
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