Urbex Squad, da Segrate a Chernobyl: «Così facciamo rivivere i luoghi abbandonati»

Alcuni dei fotografi del progetto collettivo Urbex Squad in una villa abbandonata

«Con le nostre foto, i nostri video, cerchiamo di far rivivere i luoghi abbandonati, dimenticati. Funziona come una sorta di macchina del tempo: i dettagli, un oggetto o una stanza raccontano storie, vite. E noi siamo lì a immortalarle, a fissarle nella memoria prima che spariscano per sempre».

Raccontano così la loro attività i fotografi e videomaker di Urbex Squad, progetto collettivo artistico-documentaristico di matrice segratese, dato che tutti i suoi componenti vivono o lavorano in città. Sono Roberto Rossi, Jerry Vecchio, Mattia Brambilla e Carlo Rivieccio, interpreti di un fenomeno, quello dell’esplorazione urbana (dall’inglese “urban exploration” abbreviato in “urbex”) sempre più diffuso. Con più di 150 “esplorazioni” in Italia e in Europa e partecipazioni a mostre ed esposizioni, sono già un nome nel settore. Anche grazie alla notorietà raggiunta con i video girati a Chernobyl alcuni mesi fa sui luoghi della catastrofe nucleare del 1986, che hanno superato il milione di visualizzazioni su YouTube.

Mattia, di che cosa si tratta e come è nato il vostro progetto?

«Noi cerchiamo, studiamo e poi visitiamo edifici e luoghi abbandonati, pubblici o privati, per poi fotografarli e filmarli. Come abbiamo iniziato? Un po’ per caso, quando io e Jerry, colleghi in un grande magazzino di Lavanderie e con la passione per l’Urbex, siamo entrati nell’ex Cise a girare il nostro primo video. Poi si sono uniti Roberto e Carlo e insieme abbiamo avuto il nostro “battesimo” al manicomio di Mombello, una sorta di palestra per chi si avvicina a questa attività».

Cosa c’è di così affascinante in un luogo disabitato?

«Ci sono diversi approcci tra gli “esploratori”. C’è chi cerca i luoghi più fatiscenti e degradati possibile per trasmettere un senso di inquietudine, di angoscia. Chi va a caccia di segnali… paranormali. A noi interessa “ascoltare” gli spazi cercando di riviverli, immaginando le vite vissute lì. Lo facciamo cercando il dettaglio, l’oggetto. Direi che è un approccio più documentaristico, anche sentimentale in un certo senso».

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Come scegliete i luoghi per le vostre incursioni?

«Siamo diventati buoni osservatori: è normale accorgersi dei posti, che a volte passano inosservati tra chi è abituato a vederli ma che possono raccontare molto. Usiamo anche Google, così come seguiamo il passaparola degli “urbexer” anche se preferiamo trovare luoghi originali: negli ultimi mesi stiamo fotografando soprattutto ville abbandonate, dietro ci sono storie davvero curiose ed emozionanti».

Cioè?

«Poco tempo fa abbiamo scoperto una villa in Veneto, non indichiamo mai il luogo esatto per preservarlo, e all’interno c’erano lettere che raccontavano le vicende di un’antichissima famiglia nobiliare con origini nel 1100! Anche in questo caso, come molti, la mancanza di eredi o i contenziosi tra di essi ha portato allo stato di abbandono di un edificio di grande valore, rimasto però in ottimo stato di conservazioni. I mobili e gli oggetti personali a volte restano per anni così come sono stati lasciati dagli ultimi residenti, sembra davvero che il tempo si sia fermato».

È rischioso questo tipo di attività? Denunce, pericoli fisici o sanitari all’interno dei ruderi… quali sono le “regole”?

«Dal punto di vista della sicurezza non bisogna improvvisare ma utilizzare abbigliamento e attrezzature adeguate. Per l’aspetto legale innanzitutto ci assicuriamo dello stato degli edifici in cui entriamo, verificando la presenza  di segnali di chiaro abbandono come porte aperte, finestre rotte, vegetazione incolta… Non manomettiamo gli ingressi né scavalchiamo muri e inoltre, quando esiste la possibilità, chiediamo i dovuti permessi. Il nostro “comandamento” inoltre è non toccare nulla, lasciare tutto come l’abbiamo trovato».

Vi hanno mai “beccati”?

«Sì, ma un’altra buona regola è non darsi alla fuga ma presentarsi e dichiarare subito il motivo per cui ci troviamo in un luogo. Alla fine, vista la finalità positiva, prevale il buon senso».

Mattia, sei stato a Chernobyl con Jerry e i vostri video hanno fatto un grande successo in rete. Raccontaci di questo viaggio.

«Il viaggio ci è stato proposto da uno sponsor, un tour organizzato con un operatore del luogo. Non è qualcosa che si può fare improvvisando. Un’esperienza fortissima, che ha richiesto una preparazione psicologica e anche fisica».

Che cosa avete potuto riprendere?

«Una volta arrivati a Prypjat, la cittadina accanto alla centrale nucleare, siamo passati attraverso un posto di blocco militare che sorveglia l’area che non è deserta come immaginavamo ma popolata di alcune migliaia di persone che hanno scelto di continuare a viverci. Una volta dentro la zona rossa, avevamo un permesso di sole 48 ore per ragioni di sicurezza, dato che gli oggetti e i manufatti sono ancora pesantemente contaminati, ma siamo riusciti a visitare i luoghi “simbolo” come l’ospedale, il centro sportivo, la ruota panoramica, le scuole, l’antenna Duga-3. La centrale è tuttora off-limits».

Cosa avete provato?

«Un po’ di inquietudine ovviamente c’era, parliamo comunque dell’epicentro di un disastro nucleare seppure risalente a 33 anni fa ed eravamo sottoposti a continue verifiche per le radiazioni. Però eravamo con una guida specializzata e tutt’attorno si muovevano operai, tecnici, militari impiegati lì per le operazioni di costante manutenzione e vigilanza sull’impianto, il che rassicurava. Il pensiero ricorrente era in che modo un errore umano abbia potuto spazzare via in pochi istanti una comunità di uomini e donne, segnata per sempre».

So che state organizzando una mostra qui a Segrate, ci saranno anche le immagini di Chernobyl?

«Sì, ne abbiamo parlato con l’assessore Poldi e speriamo in primavera di poter esporre al Centro Verdi. Le immagini di Chernobyl le abbiamo già presentate in altre mostre, ci piacerebbe poterle mostrare anche ai segratesi».

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