“Non so in quale foiba abbiano gettato mio padre” la testimonianza del segratese Tarticchio

Piero Tarticchio davanti al monumento in memoria delle vittime delle foibe nel giardino di via Grandi a Segrate centro

“A più di settant’anni dalla morte del mio povero padre, vado a posare un fiore sulla tomba di uno sconosciuto. Perché non so in quale foiba siano stati buttati i suoi resti”. Questo il grido di dolore e la denuncia dello scrittore e pittore segratese Piero Tarticchio, esule istriano scampato alla furia dei titini all’età di soli nove anni.

Tarticchio è presidente del Centro di Cultura giuliano-dalmata; da tanti anni è impegnato a “fare memoria” e raccontare la storia degli esuli e l’orrore delle Foibe, una storia per troppo tempo taciuta, in memoria della quale oggi, 10 febbraio, si celebra il “Giorno del Ricordo”. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua storia.

Tarticchio, lei ha pubblicato libri, partecipa a incontri e conferenze dove racconta il dramma degli esuli. Qual è la sua esperienza? Si ricorda di quando fuggì?

«Era una notte di tempesta, fine maggio 1945. Mia madre e io riuscimmo a passare sotto il filo spinato che circondava la città e a uscire da Pola. L’acquazzone aveva scoraggiato le pattuglie che quella notte preferirono restare all’asciutto e così non fummo visti. Eravamo diretti a Taranto, da uno zio ufficiale della Marina. Poi partimmo per Milano».

Quando sua madre prese la decisione di partire?

«La notte del 4 maggio alcuni partigiani titini con altri uomini in borghese vennero a casa nostra per arrestare mio padre. Appena entrati lo immobilizzarono legandolo con del filo di ferro. Lo condussero subito nella prigione di Pisino, nel castello dei Montecuccoli. Mia madre iniziò a cercarlo, attirando su di sé l’attenzione dell’OZNA, la polizia politica di Tito. Così fummo entrambi avvicinati da un personaggio ambiguo che la informò del suo imminente arresto e confino in un campo di concentramento e che io sarei stato mandato in un “collegio di rieducazione comunista”. La stessa sera partimmo e dovette smettere di cercare mio padre per salvare me». 

E a lui cosa accadde?

«Insieme a tutti gli altri 860 prigionieri del castello, nel giro di venti giorni dall’arresto sarebbe stato infoibato. La sua condizione era particolare: non solo era italiano, ma era anche proprietario di un negozio di generi alimentari. Venne accusato di essere uno “sfruttatore del popolo”». 

Non è il solo parente che avete perso, ben sette persone della vostra famiglia sono state uccise…

«Durante la prima ondata del 1943, subito dopo l’8 settembre, vennero uccise e infoibate un migliaio di persone. Fra queste mio zio, don Angelo Tarticchio, che fu prelevato di notte dalla canonica, lapidato e torturato. Una volta amputatigli i genitali e cinto il capo di filo spinato fu gettato in una vecchia cava di bauxite. È stato il primo della famiglia a essere ucciso. Al suo funerale mio padre mi stringeva forte la mano, ignaro della sorte simile che lo attendeva».

Odio di classe, nazionalismo, spirito di vendetta. Cosa determinò tali violenze verso gli italiani? 

«Fu una pura vendetta politica. L’Italia nel ‘41 aveva annesso al suo territorio tutta la provincia di Lubiana dividendo la capitale slovena in diversi settori. I fascisti furono protagonisti di numerose violenze e i titini si vendicarono. Gli italiani, inoltre, erano per lo più gente istruita e sarebbero stati di impedimento per i piani del Maresciallo. L’obiettivo di tali efferatezze era di terrorizzarli per indurli a fuggire. Fummo 350mila a partire». 

Per quale motivo ci sono voluti 57 anni e si è dovuto attendere il 31 marzo 2004 perché venisse ufficialmente riconosciuta la vostra storia e perché ancora oggi il tema delle Foibe resta divisivo?

«Giulio Andreotti lo spiegò benissimo in collegamento video con Bruno Vespa proprio la sera del 31 marzo 2004. Dopo la guerra non si parlò di esodo e di foibe perché con un’Italia in ginocchio e da ricostruire serviva il sostegno di tutte le forze dell’arco costituzionale. Sarebbe stato impossibile parlarne senza condannare il comportamento dei comunisti e quindi rompere la concordia. Due popoli che erano stati in guerra fino a pochi anni prima ritrovavano il loro spirito di fratellanza… la nostra storia di esuli non trovava spazio in questa narrazione e non bisognava disturbare l’amico Tito».

Come vi siete sentiti in questi lunghi anni di silenzio?

«Per l’Italia eravamo jugoslavi, per la Jugoslavia italiani. Ci hanno obbligato a tacere la nostra storia per 57 anni e siamo stati un popolo mite. Siamo stati gente senza casa, senza patria e senza identità. Ma ora non più. Ci hanno dato dei fascisti, dei reazionari e alcuni continuano a farlo oggi. Legga il mio ultimo libro, “Maria Peschle”: la storia che racconto è ispirata dal mio esodo. Parla della realtà e conoscerla ci fa stare bene».

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