Manfredo Biagiotti, l’angelo segratese che ha aiutato i croati di Pakostane

Manfredo, detto Manfred in Croazia, oggi vive nel paese che ha aiutato durante la guerra

La guerra gli è rimasta addosso, come una cicatrice ancora fresca nonostante siano passati quasi trent’anni. È tutta lì, negli occhi che scappano dai ricordi troppo dolorosi, nella voce che si spezza di colpo, in quella cartelletta di plastica rigida nella quale Manfredo Biagiotti ha infilato decine di fotografie e articoli di giornale. «Non l’ho ancora superata – ammette – quando ne parlo mi prende un groppo in gola che non si scioglie». È rientrato a Segrate per la cena di Natale dei carabinieri in congedo, perché lui adesso vive laggiù, a Pakostane, non lontano da Zara, nella “sua” Croazia. Quel posto del cuore, scoperto per caso all’inizio degli anni Ottanta; quel paese per il quale Manfred, lì lo chiamano così, è un eroe. Quando i primi venti di guerra iniziarono a soffiare, lui promise agli amici di Pakostane che li avrebbe aiutati, che si sarebbe speso per dare una mano qualora il conflitto fosse scoppiato davvero. Le bombe non tardarono, caddero proprio lì vicino, sconvolsero tutto in un amen. E Biagiotti mantenne la promessa. «Per prima cosa feci in modo di portare a Segrate la moglie e i figli del proprietario della casa nella quale soggiornavo a Pakostane – racconta – ma quando le truppe serbe arrivarono alle porte della città e la prima linea si spostò a ridosso del centro abitato, lei mi chiese di tornare in Croazia. Mi disse che se suo marito stava affrontando quel destino, allora lei voleva condividerlo. Ripartimmo e da quel momento iniziò tutto».

Biagiotti, tornato a Segrate, cominciò a reperire medicinali, generi alimentari, abiti; li sistemò in un magazzino al Villaggio e una volta ogni due mesi affittava un camion e partiva per la Croazia.

«Arrivavamo via mare, sbarcati a Spalato il carico veniva trasferito sui mezzi militari e il camion si imbarcava subito e tornava in Italia; gli autisti avevano una strizza… Io invece seguivo la spedizione fino a destinazione, Pakostane ma anche altre città dell’area – spiega Biagiotti – A un certo punto, quei viaggi si arricchirono di altro materiale, perfino binocoli a infrarossi per evitare che i serbi cogliessero di sorpresa l’esercito croato nei blitz notturni. Non potevo dichiararli alla dogana, dovevo nasconderli, come la morfina che trasportavo in quantità. E poi carrozzine per chi era rimasto invalido a causa delle mine o delle granate, antibiotici in scadenza regalati dalla Provincia. Ormai erano tanti a darmi una mano». Biagiotti li ricorda tutti, dai semplici cittadini alle aziende più o meno grosse, fino ai calciatori, anche di serie A, che a Paullo diedero vita a un torneo per raccogliere fondi da investire per l’acquisto di materiale ortopedico. «Laggiù erano indispensabili – ricorda – così mi presentai in questa azienda produttrice con i sei milioni che mi erano stati consegnati; riempirono il camion, c’erano protesi, placche, viti e macchinari vari per un valore di 46 milioni. Rimasi a bocca aperta. Quando arrivai all’ospedale di Biograd e consegnai il carico, il responsabile della struttura cadde in ginocchio e quasi svenne per l’emozione». Gli occhi si spostano sul caffè ormai freddo, gli serve una pausa. E quando rialza lo sguardo c’è quel velo fatto di lacrime trattenute a stento. 

«Ho visto cose che non si possono descrivere, né dimenticare. Le ho anche filmate, a casa ho dozzine di videocassette, vorrei che le vedeste…».

Scorre le foto tra le dita e si ferma di colpo quando si imbatte nei “suoi” ragazzi. I 170 di Pakostane. In piena guerra, lui e don Kacan, soprannominato don Kalashnikov per quel fucile nascosto sotto il sedile della sua auto, decisero di organizzare due viaggi per dare respiro e tregua ai piccoli del paese. Ad ospitarli furono alcune famiglie di Segrate, per un paio di mesi, in modo da regalare un pezzo di vita normale a chi doveva fare i conti con quella guerra straziante. «Quando mi conferirono il ‘Cuore d’Oro’ (benemerenza civica antesignana dell’attuale Ape, ndr) spiegai che quel premio era anche per quei cittadini che avevano accolto i ragazzi e che contribuirono ad acquistare il pullman per i viaggi, costato 18 milioni. Voglio ribadirlo ora, a distanza di quasi mezzo secolo, perché devo davvero ringraziare tutti coloro che fecero qualcosa per aiutare». Nel loro soggiorno segratese, i ragazzi di Pakostane, senza mai raccontarne i dettagli, mostrarono più volte cosa significasse per loro vivere in guerra. «Andammo a Linate e a un certo punto mi resi conto che avevano contato quanti aerei erano passati sopra le nostre teste – sorride, amaro e tenero, Biagiotti – era un’abitudine. Quando li portammo in gita in montagna, alcuni di loro guardarono il bosco e ci chiesero se fosse sicuro avvicinarsi, se davvero non ci fossero cecchini in agguato”.

«La cosa più bella è che molti di quei bimbi sono ancora in contatto con le famiglie segratesi che li ospitarono, le tengono aggiornate sulla loro vita. Il legame è rimasto ed è ancora forte».

Un altro momento drammatico fu il diffondersi dell’Aids a causa delle trasfusioni con sangue infetto. Si ammalarono in tanti, giovanissimi. E morirono. «Le farmacie segratesi mi donarono antivirali in quantità – racconta Biagiotti – li portai laggiù, insieme a un’equipe dell’Ospedale San Giuseppe di Milano. Ricordo una coppia, lui aveva 27 anni, lei due in meno. Consegnai loro dei medicinali, pillole, anche se ormai non c’era nulla da fare; era un modo per far sentire loro la vicinanza di qualcuno, per non farli sentire soli». Quella guerra sporca non passa, galleggia nei ricordi e a volte irrompe, piomba giù come le granate chimiche lanciate dagli uomini di Arkan. Manfredo Biagiotti ricorda quei volti rossi, quel colore che annunciava la morte. E sospira ancora, dà un’altra girata al caffè gelato.

Racconta del suo mare, quello che vede dal balcone della casa di Pakostane. Di quell’idea di dedicargli una statua («ma ho risposto che le statue sono per chi è morto…», sorride)

Ci racconta della sua vita prima e dopo la guerra, il lavoro nel settore chimico ad alti livelli, la collaborazione con i carabinieri, l’amicizia con il maresciallo Ricciardi. Si lascia andare e lascia andare per un attimo quei ricordi pesanti, distoglie lo sguardo dalle foto sparse sul tavolo. Poi però… riecco don Kalashnikov accanto a lui, mentre discutono di qualche dettaglio, magari militare. «Un uomo di Pakostane, quando decisi di trasferirmi lì (da due anni è un trasloco vero e proprio, ma già da tempo trascorreva in Croazia lunghi periodi) mi incrociò in piazza e mi fermò.

“Pensavo che fossi come gli altri, solo parole; invece hai mantenuto la promessa, ci hai aiutato. Devo chiederti scusa”.

Mi ha detto così, è il ringraziamento più grande».

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